Storie

La palla sotto il braccio

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Sono seduto su questi seggiolini solo per vederti giocare, non perché la partita offra particolari spunti agonistici, semplicemente per vederti con quel numero sulle spalle.
Difficile restare concentrati quando le avversarie sbloccano il risultato al primo affondo.
La rete della squadra ospite si gonfia e d’istinto alzo lo sguardo al tabellone luminoso, 20 secondi.
Speravo di vedere in azione le ragazzine della squadra locale, due partiranno anche per il raduno della under 17.
Non le vedo in panchina, le cerco sulle tribune. Eccole, sedute nell’ultima fila molto defilate. Mi chiedo che affezione colpisca quelli che con gli spalti deserti si siedono da un lato, dove la partita si vede malissimo quando possono comodamente accomodarsi al centro.
Questo è un ottobre rosa, colorato così per ricordare al mondo che c’è un tumore che toglie alle donne un pezzo della loro femminilità, uno al quale [le tette], io sono particolarmente affezionato.
Federica ha pensato di fare qualcosa, di mobilitare le donne del futsal e chiedere loro un gesto, di partecipare con un piccolo segno.
Lacci rosa.

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Per raccogliere fondi per una associazione, una di quelle che si occupano non solo del recupero fisico delle donne che hanno subito l’asportazione del seno ma anche di quello psicologico.
Se passate a trovarci, troverete lacci ovunque in casa. Federica alla fine si è arresa, ha contattato un laccificio che possa soddisfare l’enorme mole di richieste che abbiamo avuto.

Un pezzo della mia storia recente è partita verso Ancona con i suoi lacci al seguito da indossare per l’esordio in campionato, con la maglia degli Ancona Dolphins che disputeranno anche quest’anno il campionato di football americano destinato alla categoria under 19.
Paolo studierà Scienze e Tecnologie Agrarie, per uno che ha come animale di compagnia un maiale, non c’è da meravigliarsi. Buona fortuna con il corso di studi in “Scienze di Speck”, si chiama davvero così il suo suino.

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Non c’è storia in questa partita, per quanto Antonia si batta come un leone è difficile arginare la marea che s’abbatte contro le sue compagne di squadra.
10 a 1.
Difficile. Due partite in questo palazzetto e 23 gol fatti e uno subito.
Ecco, quell’unico gol mi ricorda qualcosa.
Vi è mai successo di cercare qualcosa per casa, affannarvi e infine ritrovarlo quando avevate perso le speranze?
Antonia che torna con il pallone sotto braccio, dopo che la sua squadra ha segnato l’unico gol. Passo lento e misurato, quasi a gustarsi il percorso fino al centro del campo. C’è una giocatrice avversaria Jenny…

Ora voglio spendere due secondi su questo diminutivo.
Jennifer Santos Rodrigues, fortissimo laterale portoghese che sul retro della maglia ha stampato: Jenny.
C’è una intera generazione di adulti cresciuti male, esposti a troppa animazione giapponese di basso livello, che a quel nome aggiunge automaticamente, “La Tennista”. Vi evito la ricerca su Wikipedia. [Link]

… cerca di farsi consegnare il pallone, lo vuole rimettere in gioco, ripartire subito e lavare l’onta del gol subito.
Dove ho visto questa cosa, dove ne ho letto.
Coppa del Mondo, 1950. Obdulio Varela, roccioso mediano soprannominato El Negro Jefe “il capo nero”, guida una banda di ragazzini uruguagi di talento alla più grande sorpresa nella storia dei mondiali. Battere in casa 2-1 il Brasile di Zizinho, la stella incontrastata, l’atleta che costituisce il modello di un giovane Pelè. Il Brasile ha Ademir, 32 gol in 37 gare in nazionale. La Celeste va sotto di un gol, il capitano Varela, si china dentro la porta e raccoglie il pallone. Con un lentezza esasperante e tenendolo sotto il braccio s’avvia verso il centro del campo. Vuol protestare per un presunto fuorigioco, pretende un interprete, in realtà vuol solo frenare la furia agonistica di quei grandissimi avversari. Spezzati nel ritmo e dalla tenacia di quel gesto, la nazionale verde oro subisce il pareggio e poi il gol che consacra l’Uruguay Campione del Mondo.
Jules Rimet, presidente FIFA e ideatore della Coppa del Mondo, al termine dichiarò: “Era tutto previsto, tranne la vittoria dell’Uruguay”.
Richiamo l’attenzione di Federica a bordo campo, spero le abbia scattato una foto.

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Il suo gesto non ha l’epica di quello di Varela, serve però a fermare l’onda, a non restare sommersi dalla marea biancoazzurra a tenere la testa fuori dall’acqua.
Ci sono grandi calciatori, con straordinari mezzi atletici e tecnici, capaci di diventare campioni e poi ci sono quei giocatori attorno ai quali puoi costruire una squadra vincente.
Quelli che quando da ragazzino, giocavo in pineta con gli alberi a fare da porta erano i primi che sceglievo.
A loro non “scotta” la palla tra i piedi.
Loro non ti tradiscono mai, non tirano mai la gamba indietro.
Se ti volti a cercare l’appoggio di un compagno, loro sono li.
Se c’è un rigore decisivo, prendono la palla e ti guardano come dire “ci penso io”, poi la rete si gonfia e puoi correre ad abbracciarli.
Antonia è così. Esattamente così.

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I numeri non sono mai un caso, sono sempre una certezza.
Quel cinque sulle spalle, forse è un caso, forse non lo è.

In campo finalmente c’è il numero 4 biancazzurro, quattro come le lettere del suo nome e come i pezzi in cui sembra smontarsi la sua caviglia quando cambia direzione in un dribbling.
Possiede talento, quella qualità misteriosa e intangibile impossibile da imitare, fabbricare o emulare.
Sembra non giochi mai male, perché quando gioca non proprio benissimo, in fondo è meglio di molti altri che giocano al meglio delle loro capacità.

I CAMPIONI, quelli scritti rigorosamente tutto maiuscolo, quando si pongono un obiettivo, lo raggiungono. “Voglio imparare l’italiano”, qualche mese dopo padroneggia l’idioma locale meglio di tantissimi stranieri da decenni in Italia. Ora vorrei risentire il racconto dell’espulsione di Lucileia in italiano, perché ho l’impressione che in portoghese mi sono perso il meglio nonostante la mimica da “stand up comedian” di alto livello.
Fischio, doccia e profumo di troppi bagnoschiuma diversi, alla fine sembra di stare in un deposito di detergenti esploso malamente.
“Quando torni?”
“Quando mi offri una birra?”
“No, le centrifughe no.”
S’avvia verso il pulmino che la riporta a casa.
Passano una manciata di minuti e s’illumina lo schermo dello smartphone.
“Bello vedervi giuro”.
Bello non è la parola adatta a me vicina al verbo vedere.
C’è sempre un “malissimo” pronunciato con il tuo accento dentro a ogni storia, incastrato in ogni rimbalzo di questo sport così strano.
Devo abituarmi alle partenze, ai ritorni e alle stagioni che diventano vite intere, non sono bravo con gli addii e non voglio imparare.

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