Storie

Perché lo fai?

Solitamente è la domanda di rito che subisco dall’estetista, più o meno alla terza o quarta mia imprecazione per l’ennesimo alquanto violento strappo di ceretta. Con un misto di disgusto e pena, tra un pelo e l’altro,  lei osserva insistentemente i miei stinchi abbozzati, i lividi sulle cosce e le ginocchia sbucciate. La vedo che mi guarda con un occhio indagatore, che riesco a individuare nonostante le lunghe ciglia finte in acciaio inox inossidabile; le sua labbra cominciano a tremare, esita, una goccia di sudore le riga la fronte.
lo so che vorrebbe chiedermelo, lo fa sempre ma ogni volta non vorrebbe sembrare inopportuna.
Soltanto che è più forte di lei, è più forte del ruolo che ricopre.
Nel manuale della perfetta estetista c’è scritto a chiare lettere:
Art. 1. L’estetista ha il diritto di farsi i cazzi della cliente.
Quindi alla fine smette di trattenersi inutilmente e sbotta: «ma perché lo fai?». Di solito la domanda topica è accompagnata da commenti tipo «ti rovini la pelle», il classico «ti vengono le gambe storte», «ti fai male», ecc. Allora io la guardo, reprimo quell’istinto altezzoso che vorrebbe urlarle «e a te chi cavolo te lo fa fare di strappare i peli della gente? eh? mo’ devi rompere proprio a me? Ognuno c’ha la sua croce», mi armo di santa pazienza e le spiego per l’ennesima volta perché lo faccio, perché gioco a calcio, consapevole che tanto, per l’ennesima volta, la mia estetista non mi capirà.

 

Alla fine non è che me ne importi più di tanto. Soltanto che quella domanda, nemmeno tanto inaspettata, mi dà l’occasione ogni volta di esprimermi, di guardarmi dentro, di rinnovare, qualora ce ne fosse bisogno, le motivazioni che mi spingono quotidianamente a fare quello che faccio, e cioè giocare a pallone. A dire il vero l’estetista non è l’unico personaggio che mi permette di mettere in atto questo percorso introspettivo. La lista di persone che hanno tentato o tentano tuttora di mettermi in crisi con la domanda topica è molto lunga e in continuo aggiornamento. Nell’ordine, mi chiedono “perché lo fai?”: madre, padre, mio nonno quando è lucido, la moglie di mio fratello, tutte le insegnanti dalla scuola materna all’ultimo anno fuori corso dell’università, il medico sportivo durante la visita annuale, la parrucchiera di fiducia di mia madre, il macellaio di fiducia di mia madre, la commessa del Conad amica di mia madre, tutte le amiche di mia madre, tutte le fidanzate dei restanti miei tre fratelli. A onor del vero, la domanda topica non è sempre spinta da incomprensione, scetticismo o disprezzo. Nella maggior parte dei casi è anticipata/accompagnata da un tono entusiastico-sorpreso-wow: «ma davvero giochi a calcio? Che bello. È la prima volta che mi capita di parlare con un esemplare femmineo che pratica quest’attività prettamente maschile in cui l’esemplare maschio ha modo di esprimere la sua virilità». E mi ritrovo addosso, lo sguardo curioso di un biologo marino di fronte a una razza in estinzione di pesce ibrido. In quei momenti mi sento un po’ OGM, un organismo diverso, modificato, insolito. Un fenomeno da baraccone. Che forse un giorno mi ritroverò rinchiusa in uno zoo?

_DSC2143
Nonostante queste divagazioni pseudo-realistiche, in verità di quello che pensa la gente ho avuto sempre scarsa considerazione. Mi importava e mi importa di più comprendere cosa significa in fondo quella domanda per me: «Benedetta, perché lo fai?». Cerco di rispondere a questa vocina interiore.

Mi risulta più facile procedere per negazioni: non lo faccio perché…

Non lo faccio perché l’ho scelto. Una passione non si sceglie, non si sceglie chi o cosa amare. Altrimenti la vita sarebbe molto più facile, ma anche molto più noiosa. Quindi diciamo che un bel giorno è caduto un pallone dal cielo e me ne sono innamorata. A ciò potrei aggiungere che il contesto familiare è stato molto favorevole alla nascita di questo amore: quarta di cinque figli e unica femmina, giardino grandissimo, campetto costruito ad hoc da papà e nonno. Diciamo che le bambole, riposte senza alcun rimpianto né rimorso su qualche scaffale impolverato, non erano proprio tra i miei giochi preferiti. Da quel giorno, però, ho continuato a scegliere il pallone tutti i giorni della mia vita finché morte non ci separi, amen. Perché se è vero che un amore non si sceglie, è altrettanto vero che, una volta accolto dentro di sé, quell’amore va prediletto, rinnovato e confermato quotidianamente. Va curato.

Quindi, in conclusione, non gioco a pallone perché un giorno l’ho scelto, ma perché lo scelgo ogni giorno.

Non lo faccio perché ci guadagno (soldi). Il calcio femminile (a 5, a 7, a 9, a 11 o a 25) non è sicuramente un investimento economico consigliabile e fruttuoso. Nel migliore dei casi, ti permette di condurre autonomamente una vita dignitosa, di studiare e di vivere fuori senza gravare sulla famiglia. Sicuramente non è equiparabile a un lavoro, non maturi contributi, non hai le ferie, non hai nulla di ciò che ti garantirebbe un presente e un futuro stabili. Quindi perché? Per le motivazioni di cui sopra. Per amore. E l’amore, si sa, ha ragioni che la ragione non conosce. E nemmeno il portafoglio.

Quindi, in definitiva, con ‘sta storia ci rimetti, e pure tanto. Da qui nascono i «perché lo fai?» più impegnativi, quelli dei genitori preoccupati per il tuo futuro, per le tue finanze, per la tua stabilità, motivo di discussioni accese con padre e madre. Fortunatamente, dalla mia, ho una laurea conseguita con sudore e fatica: sono sempre stata una secchiona e quindi, almeno in questo, non ho subìto dei «perché lo fai?» troppo opprimenti. Però il calcio rimane sempre un gioco, lo sarà in saecula saeculorum, perciò non c’è giustificazione che tenga. Ha senso in virtù del suo valore ludico, non è un lavoro, non è vita vera, non è concretezza, non rientra tra le attività che si addicono a una persona di venticinque anni. Dai su Benedè, è calcetto, «quand’è che cominci a lavorare?». Madonna mia l’ansia. Vai al paragrafo successivo ­->.

Non lo faccio perché non voglio lavorare. Non ho la sindrome di Peter Pan. Non voglio rimanere per sempre una bambina con il pallone sotto al braccio. Io un futuro, a modo mio, sto tentando di costruirmelo. Ma vedo i miei coetanei e vedo che è difficile per tutti, anche per chi non passa (alcuni direbbero “spreca”) gran parte del suo tempo dietro a un pallone. Anzi, vedo che per loro è anche più dura. Perché si scontrano quotidianamente con la crudeltà, la barbarie, l’ingiustizia della società, e non sanno a cosa aggrapparsi. I sogni sono sempre più difficili da realizzare, i lavori sempre più difficili da trovare, il futuro sempre più difficile da costruire. Perciò, mentre tento di districarmi in questa giungla che è l’esistenza umana, studiando, facendo quello che le mie possibilità mi concedono di fare, tentando di diventare una persona migliore, almeno lasciatemi la libertà di rincorrere un pallone, almeno lasciatemi la speranza/illusione di poter realizzare questo mio sogno che rotola da quando ero una bambina.

_DSC1960

Non lo faccio perché non so fare altro. Credo che sia importante diversificare i propri interessi. A me piacciono tante cose (ho detto cose, non persone; tendenzialmente le persone non mi piacciono e quindi in questo campo i miei interessi tacciono), cerco di riempire la mia giornata con attività che arricchiscano e fortifichino il mio carattere e il mio spirito. Amo il calcio così come amo la letteratura, i libri, la cultura. Se il tuo termine di confronto è Totti, calcio e letteratura sembrerebbero stare tra loro come il diavolo e l’acqua santa. In realtà è possibile far comunicare queste due attività all’apparenza inconciliabili. Ed è possibile farlo perché, fondamentalmente, il calcio vero è un’opera d’arte, è poesia in atto, «un linguaggio con i suoi poeti e prosatori» (http://www.interruzioni.com/calciopasolini.htm).

Ora posso rispondere, senza più avvalermi di negazioni.
Ora posso affermare e non più contraddire.
Perché lo faccio?

Ciao. Sono Benedetta De Angelis e respiro da 24 anni, 4 mesi e una manciata di ore, senza contare i nove mesi fondamentali per la mia formazione. Ho una quantità significativa di fratelli, ho vissuto un’infanzia per lo più felice, studio Filologia Moderna, vivo fuori casa da 6 anni e gioco a pallone, anzi a futsal. Mi chiedete perché? Perché sono innamorata di due cose, il calcio e la poesia. E ho scoperto che possono essere una cosa sola, quindi posso mantenermi nella legalità costituzionale ed essere monogama: gioco a futsal perché amo il calcio che si fa poesia.
Perché:

 

Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti dei “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere del campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. Pier Paolo Pasolini

Oltre ai goal, per me ci sono tanti altri momenti esclusivamente poetici. Ma ne riparleremo. Ormai ho scritto tanto e devo andare ad allenarmi. Il lavoro…ehm gioco, mi attende.

Ad maiora
StreBen

Click to comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

To Top