Football Americano Femminile

A Football Life: Karen

Karen

Un colpo di clacson e il suo dito proteso, come a far notare all’autista distratto che l’ha visto, che la sua mancanza non è passata inosservata.
Nella vita ci sono due modi di fare le cose, la maniera giusta e quella di Karen.
Si è gettata in questa avventura da giocatrice di football, con tutta se stessa, tanto che spesso il confine tra la vita normale e quella sportiva si confonde e finisce con lo sparire.
Non saranno canoni di bellezza universalmente accettati i suoi, eppure per una strana magia di questo sport, lei, con indosso l’armatura è bellissima, anzi BELLISSIMA, scritto rigorosamente tutto maiuscolo.
Alla soglia dei trent’anni è una donna che non ha perso quel filo d’incoscienza tipica di alcune sue compagne di squadra decisamente più giovani.
Dentro a quell’armatura sembra invincibile, non ricordo uno scatto di gioco che non fosse degno di un poster, non ricordo una azione di gioco dove non abbia lasciato il cento per cento.
“Dimmi solo come faccio a vincere…”, questa è una delle sue frasi che ripeto più spesso quando mi capita di parlare dell’attitudine speciale che hanno le giocatrici di football americano femminile. Con lei non ti puoi limitare a darle delle indicazioni, devi spiegarle il perché, ottenere la sua fiducia, convincerla che anche tu vuoi vincere almeno quanto lei.
Ho avuto in questi anni, il piacere e il dispiacere di ascoltarla, di vivere le sue scorribande emotive, di misurarne la forza e le sue debolezze.
Ha dei silenzi rumorosi Karen, di quelli lunghissimi, nei quali parlano solo gli sguardi, non ci sono nemmeno monosillabi, l’assenza è padrona della scena.
Vorrei rubare ancora una riga al suo racconto per chiarire, che a Karen voglio bene, come si vuol bene alle sorelle minori incasinatissime, non ci parliamo molto ultimamente ma nulla cambia per me nella cifra dei sentimenti.
La vedo scendere in campo, osservo tutti i gesti, anche quelli più insignificanti e durante il suo rito, mi torna alla mente Laurence Taylor, il suo modo di correre sul campo, la naturalezza del gesto, come se fosse nato per quello sport, come se quello fosse il suo ambiente naturale.
Lei, non è solo una giocatrice.
Dovreste vederla vestita da donnina anni 50, inspirare elio e poi ordinare al microfono: “Un dolce al tavolo delle lobsters…un dolce per favoreeeeee”, con quella vocina stranissima in un corpo come il suo.
Perché se c’è una festa, puoi contare su di lei, se il suo umore non è stato guastato in qualche modo da avvenimenti del tutto secondari e generati solitamente dall’incomprensibile capacità di Antonio d’irritarla.
Karen non riesce a non discutere, spesso in termini affatto amichevoli, con le persone alle quali vuole bene. È irritata dall’incapacità delle altre persone ad essere come lei vorrebbe, a rispondere ai suoi desideri, anche quelli inespressi.
L’averla conosciuta sui campi da football mi ha regalato una prospettiva unica.
L’ho potuta guardare negli occhi che brillano sotto il casco e non potete non notarli.
Ha spesso il paradenti in bocca, quindi con difficoltà potrà rivolgervi una dei suoi “complimenti”, tra il quale spicca il molto pescarese “ngulam…”
Quando indossa il casco, lei diventa KC.
Smetto di scrivere, di fotografare, di raccontare e la guardo.
Se ha deciso di andare in una direzione, di raggiungere uno scopo, si mette in marcia.
Aggredisce il terreno, gli scarpini mordono l’erba e poi arriva il rumore sordo dell’impatto tra corpi umani, pulito e meraviglioso. Il suono magnifico dell’impatto perfetto.
Vorrei avesse vent’anni, per poterla guardare giocare per i prossimi venti. Per potermi voltare verso gli spalti e scorgere il sorriso soddisfatto del suo papà, di cui ricordo a malapena la voce. Lui segue la partita come se fosse indissolubilmente legato alla sua bimba, la testa si muove come se ci fosse un invisibile filo a legarli, sorride spesso, quando vede la figlia rialzarsi dopo un tackle con le braccia al cielo.
Non c’è regalo più grande che questo sport mi abbia fatto, che il dono di una donna come Karen.

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