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Mancano pochi minuti al fine della partita, piove già da un po’.
C’è qualcosa di poetico nella pioggia che bagna il campo, i caschi, i playbook.
Attraversano quelle gocce insistenti, le luci di questa sera di fine Novembre.
Se ci fosse, un tabellone luminoso registrerebbe 26-0, sconfitta.
Termina la stagione 1-5. Losing Season.
Guardi i ragazzi, non è bastato, è mancato qualcosa.
Questi pochi mesi sono sembrati anni. Hai gettato tutto quello che avevi in quest’avventura, come hanno fatto quelli intorno a te. I padri assenti, le mogli contrariate, le bimbe che ti aspettano alzate mentre ti asciughi i capelli sul balcone per non svegliarle.
I giorni trascorsi al seguito del sogno di questi ragazzi, incapace di dire “no”, perché sarebbe stato tradirli un po’.
La linea laterale è affollata, le ragazze della squadra femminile ti aiutano con i segnali, i dati statistici, registrano le chiamate, le zone di attacco ma soprattutto assistono rumorose alla partita.
Quando le zittisci, perché il loro vociare rende impossibile comunicare con il campo, s’accorgono che qui si fa sul serio, almeno per un ora.
Il tuo quarterback cambia uno schema perché non è convito di riuscire a fare quello che gli hai chiesto, eccolo il problema in fondo non sei riuscito a fargli comprendere che possono fare quello che vogliono, se sono disposti a volerlo con tutto il cuore.
Le urla d’incitamento cessano, per un attimo restano attonite, per un istante osservano in campo la squadra che nessuna di loro vuol diventare.
Questa volta è solo un attimo.
Torna la pioggia e i ragazzi si battono.
Il tempo scorre veloce incontro alla fine di questo campionato.
Troppo cinismo avvelena il cuore, lo sai e ti aspetti dai ragazzi seduti in cerchio intorno al loro allenatore le abituali parole di circostanza, le solite frasi dovute piuttosto che volute.
Per qualche minuto è così …
“Vorrei dire una cosa …”. La voce si rompe, esita … “… uscito dalla comunità … per me è stata una sfida anche solo scendere in campo …” e poi le lacrime, quelle che si trattengono a fatica, quelle che scorrono perché liberano un pezzo di cuore, quelle che butti via nella speranza che non tornino mai più.
“Ora quando mi succede qualcosa di brutto … so che non mi devo più preoccupare perché  al mio fianco ci siete voi …”
Ti guardi intorno e le lacrime sono sugli occhi di tutti, nessuno escluso.
“Per me siete come dei fratelli …”
Guardi accadere qualcosa che di solito vedi in televisione oppure leggi in un libro.
Se tutto fosse falso, frutto di uno scherzo perverso, di parole di circostanza, se di quell’istante fosse vero anche un solo secondo, ecco, quell’attimo ha cambiato tutto.
Ha reso possibili quelle lacrime che odorano di Sudamerica, sono una liberazione, perché ora davanti a tutti possono essere gli uomini che vogliono diventare.
Sono per quel tackle che hai atteso per sei partite, per quel pianto che lo liberano di un peso.
Perché hai diviso il campo con dei compagni che ora hai scoperto, essere i tuoi fratelli. Avete una famiglia nuova che non è vincolata da legami di sangue, ma è intrisa di rosso e sudore.  Sono stanchi, giunti alla fine di un viaggio, un livido alla volta, un colpo alla volta.
Le caviglie doloranti, le mani bloccate dai cerotti.
Avete combattuto una battaglia, per quanto proverete a spiegarla a quelli che non erano lì con voi, niente vi legherà a nessuno con un vincolo più profondo di quello che avete contratto in questi lunghissimi mesi.
Sono diventati una squadra, una famiglia, hanno pagato in prima persona, senza sconti il prezzo per questa nuova fratellanza.
Piove, un po’ più forte ora.
Tempo di andare, verso casa.
Hai cercato delle parole per salutare questi ragazzi che hai odiato e amato, nella stessa uguale misura, come si fa con i fratelli più piccoli, come si fa con i figli.
Eccole.
“Addio, miei coraggiosi Hobbit. La mia opera è terminata.
Qui, infine, sulle rive del mare, si scioglie la nostra Compagnia.
Non vi dirò “Non piangete”, perché non tutte le lacrime sono un male.” J.R.R. Tolkien

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